giovedì 2 ottobre 2008

Nostalgia delle gerarchie rigide?

"- Maestro, ho una cattiva notizia.
- Non esistono notizie buone o cattive, ma soltanto notizie ...
"

Il ricordo del passato genera di per sé un affettuoso rimpianto e, almeno nella letteratura, si dice che anche la memoria del dolore ha qualcosa di dolce. Non trovo altra giustificazione se non questa per il favore, pur contenuto, con il quale è stata accolta la proposta del mimistro della P. I. di restaurare nella scuola elementare la figura del maestro unico (o della maestra unica, come si dice talvolta con un mal celato sessismo). Forse non è stata dolorosa per tutti quanti noi l'esperienza di essere posti da bambini sotto una tutela illimitata e senza restrizioni, alla custodia di uno sconosciuto, al quale era dovuta obbedienza anche quando dava prova di incompetenza, o perfino di crudeltà inutile e ottusa. Una volta che si sia però superato l'inganno iniziale, una volta che abbia separato il mio ricordo reale dell'insegnante elementare dall'immagine mielosa e rassicurante, stucchevolmente paternalista, degli sceneggiati televisivi, risulterà evidente a tutti noi che non vogliamo per i nostri bambini il maestro unico nella scuola elementare.

Sarebbe sufficiente, basta così, non si fa e tanti saluti. Tuttavia poiché nel disegno dei governanti, e dei poteri che governano i governanti, si delinea verosimilmente un progetto più ampio, che non investe solo il numero degli insegnanti e il possibile risparmio da riduzione di organico, conviene spingere la riflessione nel campo specifico della didattica e cercare di comprendere perché il restauro di figure verticali e autoritarie nelle primarie e nella scuola in genere deve essere considerato non solo doloroso per gli scolari, ma anche dannoso per il loro processo di crescita e inadatto ai loro specifici bisogni formativi.

Semplificando, possiamo arrivare ad affermare che nel ventesimo secolo, almeno fino ai grandi processi di modernizzazione degli anni '60, gli obiettivi primari dell'istruzione (alfabetizzazione del paese, acquisizione di una lingua d'uso comune, autopercezione del sé in una comunità di cittadini, lavoratori etc.) potevano essere perseguiti attraverso modelli didattici verticali e transitivi. La principale ragione per cui quella scuola elementare funzionava, nel senso che effettivamente i bambini imparavano la scrittura, la morfologia del paese, l'aritmetica, si trova probabilmente nel fatto che il rapporto gerarchico e univoco che legava gli scolari alla maestra riproduceva in forma simbolica (cioè didattica) i rapporti reali sui quali si declinava l'intera società. Nella famiglia c'era il capo-famiglia, in fabbrica il responsabile della linea di produzione, in ufficio il dirigente, in parrocchia, in questura, in caserma ... insomma, non c'è bisogno di dirlo. Per provare a rappresentare mentalmente quanto i rapporti gerarchici autoritari fossero considerati accettabili e in certa misura formativi è sufficiente pensare a che cosa è stato il servizio militare per tutti gli uomini della mia generazione. Le linee di forza della società erano dunque prevalentemente verticali e autoritarie - e si esprimevano talvolta in relazioni assurdamente violente e degradanti -, ma ciò che più conta e che tale configurazione restava cristallizzata per l'intera durata dell'esperienza sociale perché i paradigmi su cui si fondava non erano soggetti a trasformazione. La critica dell'autorità era socialmente vietata. Senza entrare nel merito se vivere in tale società fosse divertente o se quel modello di democrazia fosse effettivamente capace di offrire ai cittadini reali opportunità di autorealizzazione, dobbiamo comunque almeno ammettere che l'istruzione primaria, pur perseguendo l'obiettivo di base dell'alfabetizzazione, eludeva completamente qualsiasi reale compito culturale. Quelli di noi che hanno visto da bambini un museo, quelli che hanno visto Firenze, Siena o Venezia, quelli che hanno visto un libro, un film, una biblioteca, lo hanno potuto fare soltanto se si trovavano all'interno di famiglie in cui questi strumenti culturali erano già operanti.


"- La notizia è che Tai-Lung è scappato dalla prigione e sta venendo qui.
- Questa è una cattiva notizia ..."


Tuttavia, per quanto ottusa e autoritaria, la scuola elementare del ventesimo secolo rispondeva almeno in parte ad alcuni bisogni fondamentali della società. Era uno strumento di conservazione o, per meglio dire, una grande macchina di riproduzione sociale, capace cioè di ri-produrre una società identica a se stessa, gerarchica, rassicurante e produttiva. Oggi le cose sono molto diverse. Se prima i rapporti sociali erano definiti da gerarchie stabili, oggi prevalgono modelli flessibili. L'autorità del padre opera nella famiglia solo in relazione a determinati compiti, mentre rispetto ad altri emergono nuove soggettività, che vedono al centro i figli o le madri, ma anche le badanti o i nonni, anche rispetto a istanze di importanza primaria, quali l'implementazione delle tecnologie o l'acquisizione di un corredo culturale (oltre che, come è ovvio, il reperimento delle risorse economiche). Se questo vale per la famiglia, tanto più esso è vero per il mondo del lavoro, per le organizzazioni politiche, nei settori specifici della comunicazione, dell'educazione, dell'innovazione e della ricerca. Il modello di organizzazione che prevede un vertice stabile e rapporti verticali immutabili si è rivelato progressivamente inadeguato a rispondere ai problemi complessi che la società moderna (cioè la società della comunicazione, dell'educazione, dell'innovazione e della ricerca) ripresenta continuamente in modo imprevedibile. Si sono invece ovviamente rivelati più pronti a risolvere la complessità i sistemi a organizzazione flessibile, dalla famiglia alle multinazionali, capaci di adottare sempre nuove configurazioni di fronte a nuove difficoltà. Quando ciascuno dei membri un'organizzazione, ciascuno degli elementi di un sistema complesso è capace di adottare relazioni differenti e nuove, non sulla base di ciò che presume di sé, o di quello che si aspetta dagli altri per ambizione o abitudine, ma primariamente sulla base dell'obiettivo che tutti i membri condividono, il sistema nel suo complesso è pronto a cambiare continuamente configurazione. Tale disposizione al cambiamento, per cui il primario impara dallo specializzando, il manager dal tecnico, il professore dallo studente, è in sintesi il carattere essenziale della modernità.


"- Questa è una cattiva notizia solo se tu non credi che Poo sia il Guerriero Dragone."

Riportiamo infine la riflessione al tema del maestro unico nella scuola primaria. Ci sono, come è ovvio, diverse ragioni per essere contrari, ragioni che hanno trovato nei giorni scorsi molteplici formulazioni, la maggior parte delle quali consiste più o meno nel chiedersi in che modo mai una riduzione delle risorse impiegate nella scuola, un taglio, possa in qualche modo rappresentare un miglioramento o un'innovazione. La domanda è in questi termini appropriata e la risposta non può essere altro che negativa: la riduzione di spesa non può in nessun caso tradursi in miglioramento o innovazione. Mi sembra però che l'idea del maestro unico, cui affianco volentieri il ritorno dei voti nella suola media e l'introduzione del cinque in condotta, sia sostenuta da una visione complessiva della scuola e dell'insegnamento come di un luogo nel quale debbano senz'altro prevalere rapporti gerarchici e verticali. Da genitore sono portatato a credere che i moduli disciplinari nella scuola elementare servano principalmente a permettere a ogni maestro di conoscere meglio i contenuti della disciplina che insegna e da profano posso essere portato a credere che, trattandosi di contenuti elementari, non sia necessario un'alto livello di specializzazione e che il maestro quindi possa insegnare contemporaneamente argomenti di discipline diverse: le divisioni, la poesia e i piegamenti sulle ginocchia. Tuttavia appena spingo un po' più in là la mia riflessione, se rifletto, per esempio, sul titpo di difficoltà che ho avuto come genitore ad affiancare mio figlio durante i compiti, se provo non solo a pensare a una conoscenza, ma a progettare un percorso cognitivo praticabile per un bambino di sei o sette anni, mi risulta allora chiaro quanto è complesso il lavoro dell'insegnante e quanta parte di esso sia costituita dall'autoformazione e dalla programmazione. La didattica modulare - nell'ordinamento attuale - prescrive agli insegnanti di progettare in gruppo i percorsi disciplinari, permette di condividere le esperienze formative, consente infine di valutarne l'efficacia o la congruenza rispetto ai bisogni specifici dei bambini. In questo modo - solo in questo modo - nella scuola primaria è possibile mettere in atto modalità di relazione non verticali, auoritarie e incontrovertibili, ma orizzontali, cooperative e flessibili, nelle quali tutti i soggetti coinvolti (insegnanti, alunni, genitori, esperti del territorio) trovano il modo di esprimere democraticamnete le loro aspirazioni complessive.

L'insegnante - nella visione del ministro - è il soggetto di un'operazione transitiva di cui l'alunno è l'oggetto, ovvero l'insegnante trasmette un sapere di cui è detentore, i contenuti delle discipline, a un insieme atomizzato di alunni che lo riceve, lo assume in sé, senza riconiugarlo all'interno della classe in un complesso di relazioni reciproche. Il maestro unico, dietro la porta chiusa della sua aula, è l'ultimo detentore di un potere ottocentesco, che non può esprimere altro che atraverso l'esercizio arbitario dell'autorità e un assurdo protocollo di premi e punizioni, che il inistro allo scopo rispolvera dall'armadio della cancelleria. Si dissolve il carattere collegiale della scuola, si nega spazio alla programmazione congiunta, anzi, a dirla tutta, si nega spazio a qualunque forma di programmazione, perché il sapere è dato una volta per tutte e nella scuola non lo si elabora, non lo si accresce: se ne dà tutt'al più "una continua e sublime ricapitolazione".

2 commenti:

Luca Peresson ha detto...

Affascinante e totalmente condivisibile riflessione.
Manca il termine "violenza", che di buon grado inserisco a margine del tuo ragionamento.
Nella privazione di un percorso di apprendimento appagante dal punto di vista sia umano che cognitivo si (mal) cela la deriva verso una violenza nei confronti del bambino. Stretto fra le maglie di una rete educativa costruita nel nome del bilancio (taglio alle spese) e della razionalizzazione (aumento degli allievi per classe) vedremo bambini privati di conoscenze e relazioni.
Prigionieri, innocenti, reclusi in un carcere di minima sicurezza dal nome scuola.

Naturalmente, non avendo tu affrontato il problema vissuto dagli insegnanti (in quale modo confrontarsi, programmare, progettare percorsi educativi in perfetta solitudine?) lo eviterò anche io. Permettimi solo di dire che trovo difficile pensare ad una peggior sfortuna dell'essere carcerati, innocenti e attorniati da secondini depressi.

Unknown ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.